Quando un uomo siede un'ora in compagnia di una bella ragazza, sembra sia passato un minuto. Ma fatelo sedere su una stufa per un minuto e gli sembrerà più lungo di qualsiasi ora. Questa è la relatività.

giovedì 9 agosto 2012

Alcuni casi di pedofilia ecclesiastica

«Indubbiamente, negli ultimi decenni, di fronte ai casi di violenza sessuale e maltrattamento dei minori, molti responsabili hanno considerato la protezione delle istituzioni una priorità, per cui hanno tentato di nascondere la terribile verità invece di riconoscerla in tutta la sua amarezza». Le parole pronunciate dall’arcivescovo di Monaco, card. Reinhard Marx, al recente simposio sulla pedofilia clericale tenutosi presso la Pontificia Università Gregoriana (v. Adista Notizie n. 7/12) hanno senz’altro avuto il pregio di riportare al centro dell’attenzione una questione troppo spesso elusa o addirittura ignorata dalle gerarchie. Non solo casi di pedofilia clericale, in Italia come all’estero, continuano a verificarsi e, talvolta, a fare notizia, ma persiste anche la tendenza, da parte delle diocesi come da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede, a non prendere il toro per le corna. Le ragioni di tale comportamento sono diverse, anche se in fondo riconducibili a una matrice comune. Si va da un malinteso «garantismo» a senso unico (che tutela all’eccesso i presunti colpevoli e molto poco, o per nulla, le vittime passate e future), passando per una radicata propensione all’omertà, magari motivata dalla necessità di proteggere la «rispettabilità» dell’istituzione Chiesa, per concludere infine con la consapevolezza, ma più o meno strisciante e sottaciuta, della reale estensione del fenomeno (anche gli alti prelati furono un tempo seminaristi). In poche parole, la Chiesa mostra di avere paura. Paura di dover affrontare una discussione franca sulla sessualità, sul celibato ecclesiastico, sull’universo dei seminari. E allora reagisce – per anni e anni ha reagito – mettendo la polvere sotto il tappeto, cioè spesso astenendosi dal collaborare con la giustizia laica e limitandosi a spostare da una diocesi all’altra, o da una parrocchia all’altra, tanto i presunti molestatori quanto quelli provati e conclamati.
Eppure, diceva qualcuno, i fatti hanno la testa dura, chiedono di essere considerati e non cessano di porre dubbi, domande e di suscitare riflessioni. Per cui può capitare che diventi utile, e forse doveroso, riepilogarne alcuni e fare il punto della situazione. Limitatamente ai casi italiani di pedofilia clericale, Adista non è nuova a questa pratica, avendo già cercato di familiarizzare il lettore con lo «stato dell’arte» in due precedenti occasioni (v. Adista nn. 35/06 e 65/08). Dall’ultimo aggiornamento, tuttavia, parecchia acqua è passata sotto i ponti, lo scandalo pedofilia nella Chiesa ha assunto rilevanza planetaria, e le gerarchie stesse non hanno potuto far altro che prenderne atto (lo stesso simposio dei primi di febbraio sembra rimandare all’esigenza di offrire all’opinione pubblica l’immagine di un’istituzione decisa a venire alle prese con questa piaga). Mentre si avvicina la scadenza per la presentazione, da parte di tutte le diocesi del mondo, di proprie linee guida per combattere e sradicare il fenomeno – secondo quanto stabilito il 3 maggio dello scorso anno dall’ex Sant’Uffizio (v. Adista nn. 73 e 80/11) – riteniamo quindi, ancora una volta, che sia tempo di un bilancio. Di seguito pubblichiamo la prima parte del dossier sulla pedofilia tra il clero.
2008-2009
Riprendiamo dunque da dove ci eravamo interrotti. Nell’ottobre del 2008, la curia di Bolzano decide di sospendere dall’incarico Peter Gschnitzer, parroco di Castelbello Ciardes, indagato per detenzione di materiale pedopornografico. Il religioso altoatesino era stato segnalato alle forze dell’ordine da un tecnico informatico al quale aveva affidato il proprio computer per una riparazione. Successivamente alla denuncia, la posizione dell’ex parroco si era ulteriormente aggravata quando, durante una perquisizione nella sua abitazione, erano state rinvenute altre foto, stavolta cartacee, che ritraevano bambini maschi nudi ripresi in comportamenti erotici. Inchiodato dai risultati della perizia web, don Gschnitzer chiederà qualche mese più tardi, nel giugno del 2009, di patteggiare una condanna ad un anno e quattro mesi di reclusione.
Circa un mese dopo la sospensione dall’incarico del prete di Bolzano, la Cassazione conferma invece la condanna a due anni di carcere per p. Kevin Chukwuka, ex parroco di San Giacomo d’Acri, in provincia di Cosenza, accusato di molestie nei confronti di una bambina di nove anni. Padre Kevin era stato in precedenza sospeso a divinis dall’arcivescovo metropolita di Cosenza-Bisignano mons. Salvatore Nunnari.
Verona: il caso Provolo
Verso la fine di gennaio 2009, il settimanale l’Espresso denuncia uno dei casi di pedofilia clericale più odiosi ed eclatanti verificatisi nell’Italia degli ultimi decenni (v. Adista n. 13/09). A far saltare il tappo di quello che diventerà conosciuto come il caso Provolo è il giornalista Paolo Tessadri, che raccoglie e pubblica le testimonianze di 15 ex allievi di un istituto veronese gestito in passato dalla Congregazione della Compagnia di Maria per l’educazione dei sordomuti e successivamente trasformato in un centro di formazione professionale. Secondo il gruppo di ex ospiti dell’“Antonio Provolo” di Verona, fra gli anni ‘50 e la metà degli anni ‘80, all’interno dell’istituto, si sarebbe verificato un numero inaudito di violenze ai danni di un centinaio di ragazzi non udenti. 25 i religiosi accusati, una decina dei quali, al momento dello scandalo, ancora viventi e residenti presso le sedi dell’istituto di Verona e Chievo. La vicenda si trascinerà nei mesi successivi, in un crescendo di polemiche e di accuse reciproche fra la diocesi e l’Associazione Sordomuti “Antonio Provolo”. Il presidente di quest’ultima, Giorgio Dalla Bernardina, sarà in un primo momento accusato da mons. Giuseppe Zenti di aver montato uno scandalo a base di «fandonie» e testimonianze false per ottenere i beni delle congregazione che gestiva l’istituto: «È un mio diocesano», aveva dichiarato il vescovo scaligero riferendosi a Dalla Bernardina, «se vuole andare alla guerra gli suggerirei di corazzarsi, non farla con le bici da bersagliere e con le baionette». Di lì a qualche mese, tuttavia, Zenti, a seguito dell’indagine interna effettuata dalla diocesi di Verona, sarà costretto ad usare toni decisamente più «evangelici», ammettendo in parte gli abusi anche se il numero delle violenze verrà contestato e ridimensionato dalla Curia (che tuttavia non ha ascoltato le vittime). Nell’estate del 2010, inoltre, sarà costretto a porgere le sue scuse a Dalla Bernardina per evitare un processo per diffamazione.
Nel frattempo, al primo scoop de l’Espresso se ne aggiungeranno altri. Un nuovo articolo firmato da Tessadri in febbraio parlerà di un coinvolgimento attivo nelle violenze di un ex vescovo di Verona, mons. Giuseppe Carraro, morto nel 1981. Successivamente (siamo a maggio del 2009), il settimanale pubblicherà, con il titolo “Io, fratel pedofilo”, un’intervista a un laico della Congregazione della Compagnia di Maria che ammette di aver abusato ripetutamente dei ragazzi sordomuti nel corso di diversi anni: «Non c’è più nulla da nascondere», afferma l’intervistato, «io almeno ho il coraggio di dirlo, gli altri tacciono». L’intervista viene rilasciata in forma anonima, cosa che non impedirà, nei giorni successivi, l’allontanamento forzato dall’istituto di “fratel pedofilo”. Il provvedimento è firmato da un sacerdote che figura nella lista dei presunti aguzzini.
Ad oggi, il caso Provolo è tutt’altro che chiuso. Dopo la conclusione dei lavori della prima commissione interna istituita dalla Curia veronese, l’associazione guidata da Dalla Bernardina ha continuato a chiedere che siano verificati tutti i fatti sulla base dei racconti delle vittime, invitando esplicitamente il vescovo Zenti a rinunciare ad avvalersi della prescrizione (i presunti crimini non sono più perseguibili in quanto verificatisi molti anni fa). Gli ex allievi dell’istituto chiedono inoltre che i sacerdoti accusati di abusi vengano allontanati dalle sedi tuttora operanti del Provolo. In seguito all’accordo raggiunto dal titolare della diocesi di Verona e dal presidente dell’associazione, il 15 luglio del 2010 è stata inoltre annunciata la costituzione di una commissione di inchiesta «indipendente, terza e imparziale» per far luce sulle violenze. Infine, la scorsa estate, dopo che la commissione ha avuto modo di sentire il racconto degli abusati, l’Associazione Sordomuti “Antonio Provolo” ha tenuto una manifestazione sotto la sede dell’istituto per ricordare le vittime e per sollecitare il Vaticano ad esprimersi.
Bolzano: benedetta psicoanalisi
Torniamo ora a Bolzano. Il 19 marzo del 2009, la Corte di Cassazione proscioglie don Giorgio Carli, ex parroco della chiesa del Corpus Domini di via Gutenberg, perché il reato è «estinto per intervenuta prescrizione» (v. Adista nn. 65/08, 37/09 e 25/10). Il caso di don Giorgio aveva avuto negli anni precedenti una vasta risonanza in quanto le accuse contro il sacerdote erano state formulate da una ragazza che era riuscita a ricordare e rivivere, nell’ambito di un percorso di psicoanalisi e avvalendosi del materiale fornito dai propri sogni, una serie di esperienze di abuso cui era stata costretta dal parroco bolzanese fra il 1989 e il 1994. Il religioso era stato assolto in primo grado perché «il fatto non sussiste», mentre la Corte d’Appello aveva giudicato i ricordi della vittima talmente minuziosi e coerenti da attribuire ad essi un valore probante: don Giorgio era stato quindi condannato a 7 anni e mezzo di carcere e al pagamento di 760mila euro di spese di risarcimento. La Cassazione, pur considerando prescritto il reato, decide di non annullare la condanna al pagamento del risarcimento, mostrando quindi di ritenere fondate le accuse. Nel corso dell’iter processuale, la Curia di Bolzano, sotto la guida di mons. Wilhelm Egger e, successivamente, di mons. Karl Golser, ha sempre ribadito la propria stima e il proprio sostegno nei confronti dell’imputato, mantenendolo nell’incarico, anche se in altra sede. I guai giudiziari di don Carli, tuttavia, sono ricominciati agli inizi del 2011, quando la donna da lui abusata ha deciso di intentare contro il sacerdote e contro la diocesi stessa una nuova causa, stavolta in sede civile, per ottenere il pagamento del risarcimento disposto dalla giustizia penale. Dopo la prima udienza, il processo è stato aggiornato al 2013.
In giro per l’Italia
Nel maggio del 2009, ad Enna, viene condannato a 6 anni di reclusione don Giovanni Butera, un parroco riconosciuto colpevole di aver ripetutamente violentato, dal luglio del 1997 all’agosto dell’anno seguente, un ragazzino disabile di 15 anni. All’epoca dei fatti, il minore era ospite dell’oasi francescana “Villaggio del fanciullo” di Pergusa, dove don Giovanni lo avrebbe costretto a subire atti sessuali, minacciandolo, prendendolo a schiaffi e colpendolo con la cinghia in caso di rifiuto. La sentenza sarà confermata in appello nell’aprile del 2011. Si attende ora il pronunciamento della Corte di Cassazione.
Sempre in maggio, a Brindisi, don Enzo Greco, sacerdote sessantaduenne di Nardò, viene condannato a tre anni e mezzo per abusi nei confronti di un pastorello che il religioso avrebbe molestato ripetutamente nei pressi della stazione di Erchie.
A fine giugno 2009, la Corte di Cassazione conferma la condanna a 4 anni di reclusione comminata in appello a don Giuseppe Abbiati, parroco di Borgarello, nel pavese, riconosciuto colpevole di molestie nei confronti di tre bambini. Il prete, che ha recentemente chiesto di poter uscire dal carcere e di essere affidato ai servizi sociali per svolgere attività di pubblica utilità, è sempre stato difeso dalla sua comunità e ha mantenuto lo status di sacerdote per una scelta esplicita della Congregazione per la Dottrina della Fede.
Il 17 luglio 2009, un prete venezuelano viene fermato e denunciato per aver molestato, durante il volo che lo portava da Caracas a Roma, due bambine di 9 e 13 anni che viaggiavano non accompagnate (i genitori italo-argentini le attendevano all’aeroporto di Fiumicino). Nel corso della lunga traversata, a diecimila metri di altezza, il sacerdote aveva cercato con insistenza di entrare in contatto con le minorenni, arrivando a chiedere loro numero di telefono e indirizzo email. La scena, tuttavia, era stata notata da due agenti dell’Interpol che erano a bordo del velivolo.
In novembre, si conclude il processo canonico a carico di don Roberto Berti, ex parroco di Ginestra Fiorentina dal 1990 al 2001 e di San Mauro a Signa dal 2001 al 2008. La Congregazione per la Dottrina della Fede riconosce il prete colpevole di «molestie sessuali e psicologiche su minori» durante il suo mandato parrocchiale e ne ufficializza l’allontanamento dalla diocesi di Firenze, avvenuto in realtà già dal giugno del 2008. A don Roberto viene prescritto un percorso di recupero, con residenza obbligata e in regime di vigilanza, della durata di 8 anni, al termine del quale il suo caso sarà riesaminato dall’ex Sant’Uffizio. Durante questo periodo il religioso sarà escluso da ogni attività pastorale. Da anni il sacerdote era chiacchierato, nei due paesi in cui aveva prestato servizio come parroco, per il suo comportamento con i ragazzi e per il suo carattere irascibile e autoritario. Il processo canonico pare sia stato richiesto dalla Curia fiorentina dopo le denunce presentate da cinque vittime, alle quali tuttavia la diocesi ha sempre raccomandato il massimo riserbo. Del caso, in mancanza di querele, non si è mai interessata la giustizia laica.
2010
Il 22 gennaio 2010 l’arcivescovo di Campobasso-Bojano, mons. Giancarlo Bregantini, dispone l’assegnazione ad altro incarico di don Felix Cini, sacerdote che da più di un anno supporta l’anziano parroco di Cercemaggiore. In dicembre era stata diffusa dalla stampa locale la notizia che nel 2004 don Felix aveva patteggiato la pena di due anni e mezzo di reclusione per abusi commessi a danno di alcuni minori quando esercitava le sue funzioni in un centro del grossetano. La popolazione del piccolo comune in provincia di Campobasso, tenuta all’oscuro per mesi della vicenda giudiziaria che aveva visto coinvolto il religioso, si era quindi divisa sull’atteggiamento da adottare: secondo molti membri della comunità, don Felix non era più degno di fiducia, in quanto in passato aveva ripetutamente negato di essere il sacerdote implicato nello scandalo.
Di ritorno dal santuario e in plein air
Nel marzo del 2010, si aprono le porte del carcere per un anonimo prete sudamericano di 39 anni, condannato in appello a 4 anni di reclusione per abusi sessuali su un tredicenne di Rimini. Il sacerdote, già sospeso a divinis per altri motivi, era entrato in contatto con la famiglia del ragazzo durante un pellegrinaggio a Medjugorie, al termine del quale era diventato intimo dei genitori cominciando a frequentarne l’abitazione. Il religioso si era avvalso, ai fini della propria difesa, della consulenza dello psichiatra Alessandro Meluzzi, ex parlamentare di Forza Italia e collaboratore nella stessa veste anche di don Pierino Gelmini (anch’egli accusato di pedofilia e tuttora sotto processo, v. Adista n. 57/07).
Nello stesso mese, il quotidiano Tageszeitung riporta la testimonianza di un ex allievo di un istituto religioso bolzanese che afferma di aver subito diversi abusi da parte di cinque frati negli anni ‘60 (v. Adista n. 25/10). Le violenze sarebbero avvenute nei vigneti, in cantina, in stanza e perfino in sacrestia. «Solo ora che in mezza Europa si parla di violenze sessuali commesse da uomini di Chiesa oso uscire dalle tenebre», afferma l’uomo dalle colonne del giornale di lingua tedesca.
È del marzo del 2010 anche la condanna a sei mesi di reclusione di don Claudio Ballerini, prete originario di Brescia ma residente in provincia di Perugia. I fatti risalgono al 2008, quando don Claudio, seduto su una panchina e in pieno giorno, compie davanti a due sedicenni atti di autoerotismo. Il religioso era stato trasferito dal nord Italia presso la Comunità dei Figli della Misericordia di Collevalenza per seguire un «percorso di rafforzamento dell’identità umana e vocazionale dei sacerdoti». Aveva infatti già collezionato due condanne per reati simili a quello attribuitogli dal tribunale del capoluogo umbro.
Sempre nel marzo di due anni fa, mentre il Vaticano è investito dagli scandali sui casi di pedofilia clericale verificatisi in Irlanda, Germania e Stati Uniti, alcuni organi di informazione campani tirano fuori dal cassetto una vecchia storia, quella che ha per protagonista don Giuseppe Salomone, sacerdote salernitano condannato nel 2000 a un anno e cinque mesi di reclusione con sentenza passata in giudicato. I fatti risalgono ai primi anni ‘90, quando don Giuseppe, che all’epoca insegnava religione presso una scuola media di Pontecagnano Faiano, aveva compiuto alcuni atti di libidine violenta nei confronti di due studentesse. Dopo gli episodi, i genitori delle vittime avevano sporto denuncia alla procura di Salerno. Nonostante la condanna in primo grado, sopraggiunta nel 1996, il sacerdote aveva continuato ad insegnare regolarmente. Oggi è a riposo, ma è consigliere dell’istituto interdiocesano per il sostentamento del clero ed è membro del collegio presbiterale. A chiamarlo a ricoprire quest’ultima carica è stato, anni fa, l’ex arcivescovo di Salerno, mons. Gerardo Pierro.
Nel maggio 2010, il processo di appello conferma la condanna a 8 anni di don Pierangelo Bertagna, ex parroco dell’abbazia di Farneta, nel Comune di Cortona (v. Adista n. 35/06). Il suo caso era esploso nel 2005, quando il religioso era stato arrestato in seguito alle rivelazioni di un tredicenne. Una volta in cella, l’ex abate aveva confessato ben 38 casi di abusi commessi su minori nell’arco di svariati anni, uno degli scandali pedofilia più consistenti che abbiano mai toccato la Chiesa italiana. Nel corso delle indagini venne chiamato in causa anche p. Vittorio Cappelletto, il gesuita fondatore della discussa associazione «Ricostruttori nella preghiera» della quale il prete pedofilo faceva parte. Bertagna, di fronte ai magistrati, ha più volte sostenuto di aver accolto l’arresto come una liberazione, essendo consapevole dei problemi che lo affliggevano, di cui aveva in più occasioni informato i suoi superiori (Cappelletto in primis), i quali tuttavia si erano sempre rifiutati di aiutarlo e di garantire la sicurezza dei bambini che lo frequentavano. L’ex abate è stato prima sospeso a divinis e in seguito dimesso dallo stato clericlale.
In flagranza di reato
Secondo la legge italiana, il rapporto sessuale con un minorenne è un reato grave e, in caso di flagranza, è punibile con l’arresto. Ma quando la polizia stradale di Napoli, il 6 luglio del 2010, ha sorpreso don Michele De Masi, parroco di San Giorgio a Cremano, mentre consumava in macchina un rapporto sessuale completo con una quindicenne, incredibilmente lo ha lasciato andare senza spiegazioni. Don Michele aveva adescato la ragazzina via chat, dicendole di essere un professore. In seguito, il sacerdote sarà trasferito dalla Curia in un luogo non precisato per affrontare un percorso di recupero spirituale. Ricomparirà qualche mese dopo, nell’ottobre 2010, intento a dire messa nella parrocchia napoletana di Santa Lucia a Mare.
In settembre, finisce in carcere don Marco Cerullo, condannato a 6 anni e 8 mesi dalla Corte di Cassazione per esser stato colto in flagrante dai carabinieri mentre, nella sua auto, abusava sessualmente di un allievo undicenne (v. Adista n. 34/09). I fatti risalgono al dicembre del 2007, quando don Marco, viceparroco di Casal di Principe e insegnante di religione in una scuola media di Villa Literno, si era allontanato insieme all’alunno con la scusa di andare a comprare i colori per il presepe. Una volta sorpreso dai militari dell’Arma, il religioso aveva aggravato la sua situazione dandosi ad una fuga spericolata in macchina e mettendo così a rischio la stessa incolumità fisica del ragazzo. La Cassazione conferma sostanzialmente la condanna di appello, compreso il pagamento di 50mila euro di risarcimento alla vittima. Il sacerdote, che al momento del trasferimento in prigione ha già scontato due anni e 5 mesi ai domiciliari presso una comunità religiosa, risulta tuttavia nullatenente. La diocesi, che avrebbe potuto farsi carico del pagamento della somma, nel corso della vicenda processuale ha sempre mantenuto uno strettissimo riserbo. Al momento del primo arresto di don Marco, l’allora vescovo di Aversa mons. Mario Milano si era infatti schermito: «Non è che non voglio dire nulla: non posso dire nulla visto che ci sono ancora le indagini in corso». Ma la consegna del silenzio era stata zelantemente mantenuta dal prelato anche dopo le condanne in primo grado e in appello. Mai una parola è stata inoltre pronunciata dal vescovo, durante l’intera vicenda giudiziaria, per esprimere vicinanza e conforto alla vittima e ai suoi familiari. Don Marco, va infine notato, si era formato nel seminario minore di Aversa, da tempo chiacchierato per il famigerato «gioco dello scarpone», espressione con cui, fra gli allievi, ci si riferiva all’atto dell’abuso sessuale. Nella stessa istituzione il prete, promettente teologo, era in seguito tornato in qualità di assistente spirituale dei giovani ospiti della struttura.
Il primo ottobre 2010 viene condannato in primo grado a due anni e sei mesi con la condizionale don Marco Redaelli, salesiano e parroco di Arese (Mi). Nel 2007 aveva adescato presso l’oratorio da lui gestito una bambina di 7 anni, facendola entrare nel suo ufficio con la promessa di una caramella per poi toccarla nelle parti intime. La piccola, tuttavia, aveva raccontato l’episodio alla nonna, che lo aveva poi riferito al padre della vittima. Una volta sporta denuncia, l’uomo e la sua famiglia si erano trovati a dover fronteggiare un clima di forte ostilità nella cittadina, tanto da doversi temporaneamente trasferire. Nei confronti di don Redaelli, che in passato era stato missionario in Africa e America Latina, prima della condanna non era stata presa alcuna misura cautelare.
Pochi giorni dopo la condanna del salesiano di Arese, il 7 ottobre 2010 la Cassazione conferma la condanna a 4 anni nei confronti del sacerdote bergamasco don Matteo Diletti. Il trentanovenne, ex insegnante di religione in una scuola media di Vilminore di Scalve, è accusato di aver avuto un rapporto, a quanto pare consensuale, con una sua allieva tredicenne. Nel momento in cui arriva la condanna definitiva, tuttavia, don Matteo è irreperibile da circa due settimane. Il suo corpo sarà ritrovato in montagna, in fondo a un dirupo, nel marzo dell’anno successivo.
Dieci anni di reclusione e il pagamento di un risarcimento di 50mila euro. È la condanna inflitta con il rito abbreviato a don Domenico Pezzini, sacerdote appartenente alla diocesi di Lodi ma da anni residente ed operante a Milano. Il 21 dicembre 2010, il Gup Maria Vicidomini riconosce il religioso colpevole di aver avuto dei rapporti sessuali con un ragazzo tredicenne di origine bengalese e di detenere materiale pedopornografico. La notizia desta grande sconcerto nel mondo degli omosessuali credenti italiani, dei quali don Pezzini era stato, sin dai primi anni ‘80, un saldo punto di riferimento per il suo impegno teologico e pastorale sul tema della relazione tra fede e omosessualità (v. Adista nn. 1 e 93/11). (marco zerbino) (segue sul prossimo numero)


In principio era la Taxa Camerae, un documento pontificio del 1517 che nei primi 2 articoli fissava un tariffario per i preti che volessero ottenere il perdono di alcuni peccati. Recitava: «Se l’ecclesiastico, oltre al peccato di fornicazione, chiedesse d’essere assolto dal peccato contro natura o di bestialità, dovrà pagare 219 libbre, 15 soldi. Ma se avesse commesso peccato contro natura con bambini o bestie e non con una donna, pagherà solamente 131 libbre, 15 soldi».
In tempi più recenti, il Crimen Sollicitationis, redatto nel 1962, stabiliva che il processo canonico al prete accusato doveva essere un processo diocesano condotto dal vescovo della diocesi cui il prete apparteneva. Ma soprattutto ribadiva continuamente l’esigenza di mantenere la segretezza sui fatti delittuosi. Se si sapeva che un prete era pedofilo, ma nei suoi confronti non era stato aperto alcun processo canonico, nulla vietava al vescovo di trasferirlo in un’altra parrocchia. E così, infatti, per decenni è stato fatto. Al prete pedofilo eventualmente trovato colpevole, la cosa peggiore che poteva capitare era la riduzione allo stato laicale. Alle persone abusate che avessero parlato di quanto gli era successo toccava invece la scomunica. Una volta concluso il processo diocesano, se c’erano prove sufficienti a condannare il prete pedofilo, gli atti dovevano essere trasmessi, sempre in totale segretezza, al Sant’Uffizio. In caso non ci fossero prove sufficienti, gli atti dovevano invece essere distrutti.
Nell’ottobre 2001, sulla scia dei casi di pedofilia avvenuti negli Usa, l’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede Joseph Ratzinger, promulgò un’epistola nota come De Delictis Gravioribus o come Ad exsequandam. In essa richiamava il Crimen sollicitationis, e avocava all’ex Sant’Uffizio il controllo sui “crimini più gravi”, compresi gli abusi sui minori. Il testo ribadiva l’importanza della segretezza: «Tutti coloro che a vario titolo entrano a far parte del tribunale o che per il compito che svolgono siano ammessi a venire a conoscenza dei fatti sono strettamente tenuti al più stretto segreto (il cosiddetto “segreto del Sant’Uffizio”), su ogni cosa appresa e con chiunque, pena la scomunica latae sententiae».
Nessun obbligo per il vescovo che fosse venuto a conoscenza di fatti criminosi commessi da preti della sua diocesi di rivolgersi alla magistratura civile. L’obbligo riguardava solo la segnalazione del caso alla Congregazione, che decideva se avocare o meno a sé il caso oppure di lasciare al vescovo il compito di istruire un eventuale processo diocesano. Le polemiche scoppiate nel 2010 in seguito ai casi di pedofilia in Irlanda, Germania, Usa, Austria e Italia e in altri Paesi del mondo, uniti al fatto che il Vaticano dal 2001 era a conoscenza dei più gravi reati commessi dal clero di tutto il mondo, ma avesse su di essi mantenuto il più totale segreto, indusse le gerarchie ecclesiastiche a modificare alcune regole, ma non la sostanza. Così, il nuovo prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il card. William Levada ha portato la prescrizione nei processi canonici da dieci a vent’anni. Vi è poi la possibilità di procedere più rapidamente nei casi particolarmente gravi, attraverso un procedimento extragiudiziale, e di presentare direttamente al papa la richiesta di dimissione dallo stato clericale del colpevole. Inoltre, i reati di pedopornografia e di abuso contro una persona con handicap mentali vengono equiparati all’abuso contro un minore. Vi è poi una indicazione generale ai vescovi di collaborare con la giustizia civile, mentre viene però mantenuto il segreto nei processi canonici di tali delitti. Ma la condanna massima da parte della giustizia ecclesiastica resta la sola dimissione dallo stato clericale. Una mancanza di severità che stride con il modo con cui nello stesso documento di Levada vengono trattati altri delitti contro la fede come l’eresia, l’apostasia e lo scisma; i reati contro l’eucaristia; una nuova fattispecie penale: l’attentata ordinazione sacra della donna. Per tutti questi crimini, ma non per la pedofilia, è prevista la scomunica.
Fonte: Adista

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