Eppure, diceva qualcuno, i fatti hanno la testa dura,
chiedono di essere considerati e non cessano di porre dubbi, domande e
di suscitare riflessioni. Per cui può capitare che diventi utile, e
forse doveroso, riepilogarne alcuni e fare il punto della situazione.
Limitatamente ai casi italiani di pedofilia clericale, Adista
non è nuova a questa pratica, avendo già cercato di familiarizzare il
lettore con lo «stato dell’arte» in due precedenti occasioni (v. Adista
nn. 35/06 e 65/08). Dall’ultimo aggiornamento, tuttavia, parecchia acqua
è passata sotto i ponti, lo scandalo pedofilia nella Chiesa ha assunto
rilevanza planetaria, e le gerarchie stesse non hanno potuto far altro
che prenderne atto (lo stesso simposio dei primi di febbraio sembra
rimandare all’esigenza di offrire all’opinione pubblica l’immagine di
un’istituzione decisa a venire alle prese con questa piaga). Mentre si
avvicina la scadenza per la presentazione, da parte di tutte le diocesi
del mondo, di proprie linee guida per combattere e sradicare il fenomeno
– secondo quanto stabilito il 3 maggio dello scorso anno dall’ex
Sant’Uffizio (v. Adista nn. 73 e 80/11) – riteniamo quindi, ancora una
volta, che sia tempo di un bilancio. Di seguito pubblichiamo la prima
parte del dossier sulla pedofilia tra il clero.
2008-2009
Riprendiamo dunque da dove ci eravamo interrotti. Nell’ottobre del 2008, la curia di Bolzano decide di sospendere dall’incarico Peter Gschnitzer,
parroco di Castelbello Ciardes, indagato per detenzione di materiale
pedopornografico. Il religioso altoatesino era stato segnalato alle
forze dell’ordine da un tecnico informatico al quale aveva affidato il
proprio computer per una riparazione. Successivamente alla denuncia, la
posizione dell’ex parroco si era ulteriormente aggravata quando, durante
una perquisizione nella sua abitazione, erano state rinvenute altre
foto, stavolta cartacee, che ritraevano bambini maschi nudi ripresi in
comportamenti erotici. Inchiodato dai risultati della perizia web, don
Gschnitzer chiederà qualche mese più tardi, nel giugno del 2009, di
patteggiare una condanna ad un anno e quattro mesi di reclusione.
Circa un mese dopo la sospensione dall’incarico del
prete di Bolzano, la Cassazione conferma invece la condanna a due anni
di carcere per p. Kevin Chukwuka, ex parroco di San
Giacomo d’Acri, in provincia di Cosenza, accusato di molestie nei
confronti di una bambina di nove anni. Padre Kevin era stato in
precedenza sospeso a divinis dall’arcivescovo metropolita di Cosenza-Bisignano mons. Salvatore Nunnari.
Verona: il caso Provolo
Verso la fine di gennaio 2009, il settimanale l’Espresso
denuncia uno dei casi di pedofilia clericale più odiosi ed eclatanti
verificatisi nell’Italia degli ultimi decenni (v. Adista n. 13/09). A
far saltare il tappo di quello che diventerà conosciuto come il caso
Provolo è il giornalista Paolo Tessadri, che raccoglie e
pubblica le testimonianze di 15 ex allievi di un istituto veronese
gestito in passato dalla Congregazione della Compagnia di Maria per
l’educazione dei sordomuti e successivamente trasformato in un centro di
formazione professionale. Secondo il gruppo di ex ospiti dell’“Antonio
Provolo” di Verona, fra gli anni ‘50 e la metà degli anni ‘80,
all’interno dell’istituto, si sarebbe verificato un numero inaudito di
violenze ai danni di un centinaio di ragazzi non udenti. 25 i religiosi
accusati, una decina dei quali, al momento dello scandalo, ancora
viventi e residenti presso le sedi dell’istituto di Verona e Chievo. La
vicenda si trascinerà nei mesi successivi, in un crescendo di polemiche e
di accuse reciproche fra la diocesi e l’Associazione Sordomuti “Antonio
Provolo”. Il presidente di quest’ultima, Giorgio Dalla Bernardina, sarà in un primo momento accusato da mons. Giuseppe Zenti
di aver montato uno scandalo a base di «fandonie» e testimonianze false
per ottenere i beni delle congregazione che gestiva l’istituto: «È un
mio diocesano», aveva dichiarato il vescovo scaligero riferendosi a
Dalla Bernardina, «se vuole andare alla guerra gli suggerirei di
corazzarsi, non farla con le bici da bersagliere e con le baionette». Di
lì a qualche mese, tuttavia, Zenti, a seguito dell’indagine interna
effettuata dalla diocesi di Verona, sarà costretto ad usare toni
decisamente più «evangelici», ammettendo in parte gli abusi anche se il
numero delle violenze verrà contestato e ridimensionato dalla Curia (che
tuttavia non ha ascoltato le vittime). Nell’estate del 2010, inoltre,
sarà costretto a porgere le sue scuse a Dalla Bernardina per evitare un
processo per diffamazione.
Nel frattempo, al primo scoop de l’Espresso
se ne aggiungeranno altri. Un nuovo articolo firmato da Tessadri in
febbraio parlerà di un coinvolgimento attivo nelle violenze di un ex
vescovo di Verona, mons. Giuseppe Carraro, morto nel
1981. Successivamente (siamo a maggio del 2009), il settimanale
pubblicherà, con il titolo “Io, fratel pedofilo”, un’intervista a un
laico della Congregazione della Compagnia di Maria che ammette di aver
abusato ripetutamente dei ragazzi sordomuti nel corso di diversi anni:
«Non c’è più nulla da nascondere», afferma l’intervistato, «io almeno ho
il coraggio di dirlo, gli altri tacciono». L’intervista viene
rilasciata in forma anonima, cosa che non impedirà, nei giorni
successivi, l’allontanamento forzato dall’istituto di “fratel pedofilo”.
Il provvedimento è firmato da un sacerdote che figura nella lista dei
presunti aguzzini.
Ad oggi, il caso Provolo è tutt’altro che chiuso. Dopo
la conclusione dei lavori della prima commissione interna istituita
dalla Curia veronese, l’associazione guidata da Dalla Bernardina ha
continuato a chiedere che siano verificati tutti i fatti sulla base dei
racconti delle vittime, invitando esplicitamente il vescovo Zenti a
rinunciare ad avvalersi della prescrizione (i presunti crimini non sono
più perseguibili in quanto verificatisi molti anni fa). Gli ex allievi
dell’istituto chiedono inoltre che i sacerdoti accusati di abusi vengano
allontanati dalle sedi tuttora operanti del Provolo. In seguito
all’accordo raggiunto dal titolare della diocesi di Verona e dal
presidente dell’associazione, il 15 luglio del 2010 è stata inoltre
annunciata la costituzione di una commissione di inchiesta
«indipendente, terza e imparziale» per far luce sulle violenze. Infine,
la scorsa estate, dopo che la commissione ha avuto modo di sentire il
racconto degli abusati, l’Associazione Sordomuti “Antonio Provolo” ha
tenuto una manifestazione sotto la sede dell’istituto per ricordare le
vittime e per sollecitare il Vaticano ad esprimersi.
Bolzano: benedetta psicoanalisi
Torniamo ora a Bolzano. Il 19 marzo del 2009, la Corte di Cassazione proscioglie don Giorgio Carli,
ex parroco della chiesa del Corpus Domini di via Gutenberg, perché il
reato è «estinto per intervenuta prescrizione» (v. Adista nn. 65/08,
37/09 e 25/10). Il caso di don Giorgio aveva avuto negli anni precedenti
una vasta risonanza in quanto le accuse contro il sacerdote erano state
formulate da una ragazza che era riuscita a ricordare e rivivere,
nell’ambito di un percorso di psicoanalisi e avvalendosi del materiale
fornito dai propri sogni, una serie di esperienze di abuso cui era stata
costretta dal parroco bolzanese fra il 1989 e il 1994. Il religioso era
stato assolto in primo grado perché «il fatto non sussiste», mentre la
Corte d’Appello aveva giudicato i ricordi della vittima talmente
minuziosi e coerenti da attribuire ad essi un valore probante: don
Giorgio era stato quindi condannato a 7 anni e mezzo di carcere e al
pagamento di 760mila euro di spese di risarcimento. La Cassazione, pur
considerando prescritto il reato, decide di non annullare la condanna al
pagamento del risarcimento, mostrando quindi di ritenere fondate le
accuse. Nel corso dell’iter processuale, la Curia di Bolzano, sotto la
guida di mons. Wilhelm Egger e, successivamente, di mons. Karl Golser,
ha sempre ribadito la propria stima e il proprio sostegno nei confronti
dell’imputato, mantenendolo nell’incarico, anche se in altra sede. I
guai giudiziari di don Carli, tuttavia, sono ricominciati agli inizi del
2011, quando la donna da lui abusata ha deciso di intentare contro il
sacerdote e contro la diocesi stessa una nuova causa, stavolta in sede
civile, per ottenere il pagamento del risarcimento disposto dalla
giustizia penale. Dopo la prima udienza, il processo è stato aggiornato
al 2013.
In giro per l’Italia
Nel maggio del 2009, ad Enna, viene condannato a 6 anni di reclusione don Giovanni Butera,
un parroco riconosciuto colpevole di aver ripetutamente violentato, dal
luglio del 1997 all’agosto dell’anno seguente, un ragazzino disabile di
15 anni. All’epoca dei fatti, il minore era ospite dell’oasi
francescana “Villaggio del fanciullo” di Pergusa, dove don Giovanni lo
avrebbe costretto a subire atti sessuali, minacciandolo, prendendolo a
schiaffi e colpendolo con la cinghia in caso di rifiuto. La sentenza
sarà confermata in appello nell’aprile del 2011. Si attende ora il
pronunciamento della Corte di Cassazione.
Sempre in maggio, a Brindisi, don Enzo Greco,
sacerdote sessantaduenne di Nardò, viene condannato a tre anni e mezzo
per abusi nei confronti di un pastorello che il religioso avrebbe
molestato ripetutamente nei pressi della stazione di Erchie.
A fine giugno 2009, la Corte di Cassazione conferma la condanna a 4 anni di reclusione comminata in appello a don Giuseppe Abbiati,
parroco di Borgarello, nel pavese, riconosciuto colpevole di molestie
nei confronti di tre bambini. Il prete, che ha recentemente chiesto di
poter uscire dal carcere e di essere affidato ai servizi sociali per
svolgere attività di pubblica utilità, è sempre stato difeso dalla sua
comunità e ha mantenuto lo status di sacerdote per una scelta esplicita della Congregazione per la Dottrina della Fede.
Il 17 luglio 2009, un prete venezuelano viene fermato e
denunciato per aver molestato, durante il volo che lo portava da Caracas
a Roma, due bambine di 9 e 13 anni che viaggiavano non accompagnate (i
genitori italo-argentini le attendevano all’aeroporto di Fiumicino). Nel
corso della lunga traversata, a diecimila metri di altezza, il
sacerdote aveva cercato con insistenza di entrare in contatto con le
minorenni, arrivando a chiedere loro numero di telefono e indirizzo
email. La scena, tuttavia, era stata notata da due agenti dell’Interpol
che erano a bordo del velivolo.
In novembre, si conclude il processo canonico a carico di don Roberto Berti,
ex parroco di Ginestra Fiorentina dal 1990 al 2001 e di San Mauro a
Signa dal 2001 al 2008. La Congregazione per la Dottrina della Fede
riconosce il prete colpevole di «molestie sessuali e psicologiche su
minori» durante il suo mandato parrocchiale e ne ufficializza
l’allontanamento dalla diocesi di Firenze, avvenuto in realtà già dal
giugno del 2008. A don Roberto viene prescritto un percorso di recupero,
con residenza obbligata e in regime di vigilanza, della durata di 8
anni, al termine del quale il suo caso sarà riesaminato dall’ex
Sant’Uffizio. Durante questo periodo il religioso sarà escluso da ogni
attività pastorale. Da anni il sacerdote era chiacchierato, nei due
paesi in cui aveva prestato servizio come parroco, per il suo
comportamento con i ragazzi e per il suo carattere irascibile e
autoritario. Il processo canonico pare sia stato richiesto dalla Curia
fiorentina dopo le denunce presentate da cinque vittime, alle quali
tuttavia la diocesi ha sempre raccomandato il massimo riserbo. Del caso,
in mancanza di querele, non si è mai interessata la giustizia laica.
2010
Il 22 gennaio 2010 l’arcivescovo di Campobasso-Bojano, mons. Giancarlo Bregantini, dispone l’assegnazione ad altro incarico di don Felix Cini,
sacerdote che da più di un anno supporta l’anziano parroco di
Cercemaggiore. In dicembre era stata diffusa dalla stampa locale la
notizia che nel 2004 don Felix aveva patteggiato la pena di due anni e
mezzo di reclusione per abusi commessi a danno di alcuni minori quando
esercitava le sue funzioni in un centro del grossetano. La popolazione
del piccolo comune in provincia di Campobasso, tenuta all’oscuro per
mesi della vicenda giudiziaria che aveva visto coinvolto il religioso,
si era quindi divisa sull’atteggiamento da adottare: secondo molti
membri della comunità, don Felix non era più degno di fiducia, in quanto
in passato aveva ripetutamente negato di essere il sacerdote implicato
nello scandalo.
Di ritorno dal santuario e in plein air
Nel marzo del 2010, si aprono le porte del carcere per
un anonimo prete sudamericano di 39 anni, condannato in appello a 4 anni
di reclusione per abusi sessuali su un tredicenne di Rimini. Il
sacerdote, già sospeso a divinis per altri motivi, era entrato
in contatto con la famiglia del ragazzo durante un pellegrinaggio a
Medjugorie, al termine del quale era diventato intimo dei genitori
cominciando a frequentarne l’abitazione. Il religioso si era avvalso, ai
fini della propria difesa, della consulenza dello psichiatra Alessandro Meluzzi, ex parlamentare di Forza Italia e collaboratore nella stessa veste anche di don Pierino Gelmini (anch’egli accusato di pedofilia e tuttora sotto processo, v. Adista n. 57/07).
Nello stesso mese, il quotidiano Tageszeitung
riporta la testimonianza di un ex allievo di un istituto religioso
bolzanese che afferma di aver subito diversi abusi da parte di cinque
frati negli anni ‘60 (v. Adista n. 25/10). Le violenze sarebbero
avvenute nei vigneti, in cantina, in stanza e perfino in sacrestia.
«Solo ora che in mezza Europa si parla di violenze sessuali commesse da
uomini di Chiesa oso uscire dalle tenebre», afferma l’uomo dalle colonne
del giornale di lingua tedesca.
È del marzo del 2010 anche la condanna a sei mesi di reclusione di don Claudio Ballerini,
prete originario di Brescia ma residente in provincia di Perugia. I
fatti risalgono al 2008, quando don Claudio, seduto su una panchina e in
pieno giorno, compie davanti a due sedicenni atti di autoerotismo. Il
religioso era stato trasferito dal nord Italia presso la Comunità dei
Figli della Misericordia di Collevalenza per seguire un «percorso di
rafforzamento dell’identità umana e vocazionale dei sacerdoti». Aveva
infatti già collezionato due condanne per reati simili a quello
attribuitogli dal tribunale del capoluogo umbro.
Sempre nel marzo di due anni fa, mentre il Vaticano è
investito dagli scandali sui casi di pedofilia clericale verificatisi in
Irlanda, Germania e Stati Uniti, alcuni organi di informazione campani
tirano fuori dal cassetto una vecchia storia, quella che ha per
protagonista don Giuseppe Salomone, sacerdote
salernitano condannato nel 2000 a un anno e cinque mesi di reclusione
con sentenza passata in giudicato. I fatti risalgono ai primi anni ‘90,
quando don Giuseppe, che all’epoca insegnava religione presso una scuola
media di Pontecagnano Faiano, aveva compiuto alcuni atti di libidine
violenta nei confronti di due studentesse. Dopo gli episodi, i genitori
delle vittime avevano sporto denuncia alla procura di Salerno.
Nonostante la condanna in primo grado, sopraggiunta nel 1996, il
sacerdote aveva continuato ad insegnare regolarmente. Oggi è a riposo,
ma è consigliere dell’istituto interdiocesano per il sostentamento del
clero ed è membro del collegio presbiterale. A chiamarlo a ricoprire
quest’ultima carica è stato, anni fa, l’ex arcivescovo di Salerno, mons. Gerardo Pierro.
Nel maggio 2010, il processo di appello conferma la condanna a 8 anni di don Pierangelo Bertagna, ex parroco
dell’abbazia di Farneta, nel Comune di Cortona (v. Adista n. 35/06). Il
suo caso era esploso nel 2005, quando il religioso era stato arrestato
in seguito alle rivelazioni di un tredicenne. Una volta in cella, l’ex
abate aveva confessato ben 38 casi di abusi commessi su minori nell’arco
di svariati anni, uno degli scandali pedofilia più consistenti che
abbiano mai toccato la Chiesa italiana. Nel corso delle indagini venne
chiamato in causa anche p. Vittorio Cappelletto, il
gesuita fondatore della discussa associazione «Ricostruttori nella
preghiera» della quale il prete pedofilo faceva parte. Bertagna, di
fronte ai magistrati, ha più volte sostenuto di aver accolto l’arresto
come una liberazione, essendo consapevole dei problemi che lo
affliggevano, di cui aveva in più occasioni informato i suoi superiori
(Cappelletto in primis), i quali tuttavia si erano sempre
rifiutati di aiutarlo e di garantire la sicurezza dei bambini che lo
frequentavano. L’ex abate è stato prima sospeso a divinis e in seguito dimesso dallo stato clericlale.
In flagranza di reato
Secondo la legge italiana, il rapporto sessuale con un
minorenne è un reato grave e, in caso di flagranza, è punibile con
l’arresto. Ma quando la polizia stradale di Napoli, il 6 luglio del
2010, ha sorpreso don Michele De Masi, parroco di San
Giorgio a Cremano, mentre consumava in macchina un rapporto sessuale
completo con una quindicenne, incredibilmente lo ha lasciato andare
senza spiegazioni. Don Michele aveva adescato la ragazzina via chat,
dicendole di essere un professore. In seguito, il sacerdote sarà
trasferito dalla Curia in un luogo non precisato per affrontare un
percorso di recupero spirituale. Ricomparirà qualche mese dopo,
nell’ottobre 2010, intento a dire messa nella parrocchia napoletana di
Santa Lucia a Mare.
In settembre, finisce in carcere don Marco Cerullo,
condannato a 6 anni e 8 mesi dalla Corte di Cassazione per esser stato
colto in flagrante dai carabinieri mentre, nella sua auto, abusava
sessualmente di un allievo undicenne (v. Adista n. 34/09). I fatti
risalgono al dicembre del 2007, quando don Marco, viceparroco di Casal
di Principe e insegnante di religione in una scuola media di Villa
Literno, si era allontanato insieme all’alunno con la scusa di andare a
comprare i colori per il presepe. Una volta sorpreso dai militari
dell’Arma, il religioso aveva aggravato la sua situazione dandosi ad una
fuga spericolata in macchina e mettendo così a rischio la stessa
incolumità fisica del ragazzo. La Cassazione conferma sostanzialmente la
condanna di appello, compreso il pagamento di 50mila euro di
risarcimento alla vittima. Il sacerdote, che al momento del
trasferimento in prigione ha già scontato due anni e 5 mesi ai
domiciliari presso una comunità religiosa, risulta tuttavia
nullatenente. La diocesi, che avrebbe potuto farsi carico del pagamento
della somma, nel corso della vicenda processuale ha sempre mantenuto uno
strettissimo riserbo. Al momento del primo arresto di don Marco,
l’allora vescovo di Aversa mons. Mario Milano si era
infatti schermito: «Non è che non voglio dire nulla: non posso dire
nulla visto che ci sono ancora le indagini in corso». Ma la consegna del
silenzio era stata zelantemente mantenuta dal prelato anche dopo le
condanne in primo grado e in appello. Mai una parola è stata inoltre
pronunciata dal vescovo, durante l’intera vicenda giudiziaria, per
esprimere vicinanza e conforto alla vittima e ai suoi familiari. Don
Marco, va infine notato, si era formato nel seminario minore di Aversa,
da tempo chiacchierato per il famigerato «gioco dello scarpone»,
espressione con cui, fra gli allievi, ci si riferiva all’atto dell’abuso
sessuale. Nella stessa istituzione il prete, promettente teologo, era
in seguito tornato in qualità di assistente spirituale dei giovani
ospiti della struttura.
Il primo ottobre 2010 viene condannato in primo grado a due anni e sei mesi con la condizionale don Marco Redaelli,
salesiano e parroco di Arese (Mi). Nel 2007 aveva adescato presso
l’oratorio da lui gestito una bambina di 7 anni, facendola entrare nel
suo ufficio con la promessa di una caramella per poi toccarla nelle
parti intime. La piccola, tuttavia, aveva raccontato l’episodio alla
nonna, che lo aveva poi riferito al padre della vittima. Una volta
sporta denuncia, l’uomo e la sua famiglia si erano trovati a dover
fronteggiare un clima di forte ostilità nella cittadina, tanto da
doversi temporaneamente trasferire. Nei confronti di don Redaelli, che
in passato era stato missionario in Africa e America Latina, prima della
condanna non era stata presa alcuna misura cautelare.
Pochi giorni dopo la condanna del salesiano di Arese, il
7 ottobre 2010 la Cassazione conferma la condanna a 4 anni nei
confronti del sacerdote bergamasco don Matteo Diletti.
Il trentanovenne, ex insegnante di religione in una scuola media di
Vilminore di Scalve, è accusato di aver avuto un rapporto, a quanto pare
consensuale, con una sua allieva tredicenne. Nel momento in cui arriva
la condanna definitiva, tuttavia, don Matteo è irreperibile da circa due
settimane. Il suo corpo sarà ritrovato in montagna, in fondo a un
dirupo, nel marzo dell’anno successivo.
Dieci anni di reclusione e il pagamento di un risarcimento di 50mila euro. È la condanna inflitta con il rito abbreviato a don Domenico Pezzini, sacerdote appartenente alla diocesi di Lodi ma da anni residente ed operante a Milano. Il 21 dicembre 2010, il Gup Maria Vicidomini
riconosce il religioso colpevole di aver avuto dei rapporti sessuali
con un ragazzo tredicenne di origine bengalese e di detenere materiale
pedopornografico. La notizia desta grande sconcerto nel mondo degli
omosessuali credenti italiani, dei quali don Pezzini era stato, sin dai
primi anni ‘80, un saldo punto di riferimento per il suo impegno
teologico e pastorale sul tema della relazione tra fede e omosessualità
(v. Adista nn. 1 e 93/11). (marco zerbino) (segue sul prossimo numero)
In principio era la Taxa Camerae, un documento
pontificio del 1517 che nei primi 2 articoli fissava un tariffario per i
preti che volessero ottenere il perdono di alcuni peccati. Recitava:
«Se l’ecclesiastico, oltre al peccato di fornicazione, chiedesse
d’essere assolto dal peccato contro natura o di bestialità, dovrà pagare
219 libbre, 15 soldi. Ma se avesse commesso peccato contro natura con
bambini o bestie e non con una donna, pagherà solamente 131 libbre, 15
soldi».
In tempi più recenti, il Crimen Sollicitationis,
redatto nel 1962, stabiliva che il processo canonico al prete accusato
doveva essere un processo diocesano condotto dal vescovo della diocesi
cui il prete apparteneva. Ma soprattutto ribadiva continuamente
l’esigenza di mantenere la segretezza sui fatti delittuosi. Se si sapeva
che un prete era pedofilo, ma nei suoi confronti non era stato aperto
alcun processo canonico, nulla vietava al vescovo di trasferirlo in
un’altra parrocchia. E così, infatti, per decenni è stato fatto. Al
prete pedofilo eventualmente trovato colpevole, la cosa peggiore che
poteva capitare era la riduzione allo stato laicale. Alle persone
abusate che avessero parlato di quanto gli era successo toccava invece
la scomunica. Una volta concluso il processo diocesano, se c’erano prove
sufficienti a condannare il prete pedofilo, gli atti dovevano essere
trasmessi, sempre in totale segretezza, al Sant’Uffizio. In caso non ci
fossero prove sufficienti, gli atti dovevano invece essere distrutti.
Nell’ottobre 2001, sulla scia dei casi di pedofilia
avvenuti negli Usa, l’allora prefetto della Congregazione per la
Dottrina della Fede Joseph Ratzinger, promulgò un’epistola nota come De Delictis Gravioribus o come Ad exsequandam. In essa richiamava il Crimen sollicitationis,
e avocava all’ex Sant’Uffizio il controllo sui “crimini più gravi”,
compresi gli abusi sui minori. Il testo ribadiva l’importanza della
segretezza: «Tutti coloro che a vario titolo entrano a far parte del
tribunale o che per il compito che svolgono siano ammessi a venire a
conoscenza dei fatti sono strettamente tenuti al più stretto segreto (il
cosiddetto “segreto del Sant’Uffizio”), su ogni cosa appresa e con
chiunque, pena la scomunica latae sententiae».
Nessun obbligo per il vescovo che fosse venuto a
conoscenza di fatti criminosi commessi da preti della sua diocesi di
rivolgersi alla magistratura civile. L’obbligo riguardava solo la
segnalazione del caso alla Congregazione, che decideva se avocare o meno
a sé il caso oppure di lasciare al vescovo il compito di istruire un
eventuale processo diocesano. Le polemiche scoppiate nel 2010 in seguito
ai casi di pedofilia in Irlanda, Germania, Usa, Austria e Italia e in
altri Paesi del mondo, uniti al fatto che il Vaticano dal 2001 era a
conoscenza dei più gravi reati commessi dal clero di tutto il mondo, ma
avesse su di essi mantenuto il più totale segreto, indusse le gerarchie
ecclesiastiche a modificare alcune regole, ma non la sostanza. Così, il
nuovo prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il card. William Levada
ha portato la prescrizione nei processi canonici da dieci a vent’anni.
Vi è poi la possibilità di procedere più rapidamente nei casi
particolarmente gravi, attraverso un procedimento extragiudiziale, e di
presentare direttamente al papa la richiesta di dimissione dallo stato
clericale del colpevole. Inoltre, i reati di pedopornografia e di abuso
contro una persona con handicap mentali vengono equiparati all’abuso
contro un minore. Vi è poi una indicazione generale ai vescovi di
collaborare con la giustizia civile, mentre viene però mantenuto il
segreto nei processi canonici di tali delitti. Ma la condanna massima da
parte della giustizia ecclesiastica resta la sola dimissione dallo
stato clericale. Una mancanza di severità che stride con il modo con cui
nello stesso documento di Levada vengono trattati altri delitti contro
la fede come l’eresia, l’apostasia e lo scisma; i reati contro
l’eucaristia; una nuova fattispecie penale: l’attentata ordinazione
sacra della donna. Per tutti questi crimini, ma non per la pedofilia, è
prevista la scomunica.Fonte: Adista
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